“Dopo, mio padre non prendeva l’ascensore”
Bagna cauda è amore e odio: intingere, assaporare, cambiare verdura, bere vino, scherzare, ridere e mangiare. E via così. Poi notti insonni, ricche di afrori, sogni pesanti e passeggiate in cucina in cerca di bustine anti-acido. Ecco il mio rapporto con il mitico piatto piemontese, nato quando ero piccola.
I miei genitori la facevano per gli amici: io assistevo alle discussioni tra mamma e nonno Edoardo sulla cottura dell’aglio, alla preparazione dei trionfi di verdure. Poi mi facevano salutare gli ospiti e mi mandavano a nanna. Rimuginando su quel rito misterioso che si svolgeva nella sala da pranzo.
Sul far della mezzanotte gli amici se ne andavano e ricordo il “day after”, quando i miei genitori salivano le scale a piedi per evitare imbarazzanti spiegazioni con i vicini sull’ascensore. Quelle bagna caude “spiate” e non consumate, mi hanno evidentemente segnato: una volta l’anno la mangio, per spirito di compagnia, ma con buona pace delle mie astigianissime radici, la pasta di Gragnano con i sughi meridionali, per me non ha rivali.
Lo diceva papà Ugo: “Chissà dan dua tei surtia, at sii propi na Napuli”.