Omaggio a Enzo Bianchi e al suo straordinario “Il pane di ieri”

Enzo Bianchi (Castelboglione, 1943) è fondatore e priore della Comunità Monastica di Bose.
Nel 1983 ha fondato la casa editrice Edizioni Qiqajon che pubblica testi di spiritualità biblica, patristica, liturgica e monastica. Due lauree honoris causa, una in Scienze Politiche dall’Università di Torino, l’altra dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, Enzo Bianchi è stato membro di numerosi consigli e delegazioni pontificie per la collaborazioni tra fedi e all’evangelizzazione.

Tra i riconoscimenti ricevuti, nel 2009 il Premio Cesare Pavese e il Premio Cesare Angelini per il libro “Il pane di ieri”, da cui è tratto il passaggio che riportiamo in queste pagine. Dal 2014 è cittadino onorario della Val d’Aosta e di Nizza Monferrato, dal 2017 della città di Palermo. È autore di testi sulla spiritualità cristiana e sulla Chiesa in dialogo con il mondo contemporaneo. Collabora con La Stampa, Avvenire, e, in Francia, con il quotidiano La Croix e i periodici Panorama e La Vie.

Con la vendemmia ci si avvia all’autunno, la stagione in cui tra le colline del Monferrato accese di colori e spoglie di grappoli si attarda un’insistente nebbiolina e dalle vigne si anticipa il rientro a casa, perché “ormai fa fresco”. Che fosse per scaldarsi un po’ alla sera, o per arginare la malinconia che si impadronisce delle giornate più corte, o magari per riabituarsi a starsene in casa in vista della stagione fredda, sta di fatto che era questa la stagione in cui, con amicizia rinnovata, noi giovani ci ritrovavamo in compagnia a mangiare un piatto tipico della tradizione contadina: la bagna càuda.

Per noi era anche il modo più semplice per divertirci insieme: la pista da ballo c’era solo una volta all’anno – si montava per la festa del paese e si smontava subito dopo – il cinema una volta alla settimana, giocare a carte al bar sembrava affare da anziani, la televisione era sconosciuta. Così, per stare insieme in allegria, “contarcela” ridendo e scherzando, in autunno e inverno niente di meglio di una buona bagna càuda: una cena che era uno sbocco naturale delle nostre relazioni, una serata in cui chi a turno invitava gli amici a casa propria dava il meglio di sé, assieme al miglior vino che teneva in cantina. Ma molto di più di una tavolata tra amici, la bagna càuda era un’autentica celebrazione culinaria del territorio, dei suoi prodotti, del desiderio condiviso, della convivialità: era, oserei dire, un’opera d’arte…

Un’opera d’arte culinaria che, per essere gustata veramente, va conosciuta nei suoi semplicissimi ma straordinari ingredienti. Le acciughe, innanzitutto. Certo solo Nico Orengo riesce a narrare degnamente il salto dell’acciuga, quel magico viaggio dalla riviera della Liguria alle colline del Monferrato. Lì questi nastri argentati arrivavano con la bicicletta dell’acciugaio: due cestini di vimini collocati uno sulla ruota davanti e l’altro su quella posteriore e, nei cestini, i secchielli in legno coperti da una pietra nera di lavagna, anch’essa frutto del mare. Pescate nel mar Ligure, le migliori erano considerate quelle del golfo del Tigullio, di Monterosso in particolare. Con il suo carico prezioso stipato sotto sale, al grido “Donne! Acciughe belleeee…” l’acciugaio attraversava il paese e le donne uscivano di casa, lo salutavano e si avvicinavano per comperarne qualche etto.

A parte la gente di mare, credo che solo in Monferrato e nelle Langhe vi sia chi sappia davvero apprezzare e valorizzare le acciughe: nelle case non mancano mai e con il loro “bagnetto” (la salsa per impreziosirle) verde o rosso, oppure sott’olio o ancora con un po’ di burro, sovente erano l’unica portata di una cena: cibo povero ma capace di allietare una scarsità altrimenti ben triste. L’altro ingrediente è l’aglio, che arrivava nelle cucine senza dover “fare il salto” degli Appennini: lo coltivavamo in Monferrato e ne eravamo molto fieri. […] sapientemente raccolto in trecce che erano autentici capolavori di tessitura, veniva appeso presso il camino e da lì se ne staccava una testa, la si tritava o sminuzzava e ogni piatto acquistava profumo e sapore di cibo prelibato.

E, infine, l’olio. Anche questo veniva dalla Liguria ed era scambiato con il nostro vino: cinque litri di vino per un litro di olio. […] Quando ancora oggi mangio la bagna càuda, non posso fare a meno di pensare al pesce pescato in mare, quelle lucenti argentee acciughe […] Penso all’olio dei pendii liguri: le olive che allora erano raccolte a mano e molate per estrarne un olio verde straordinario per il profumo, torbido di spessore, delicato ed intenso nel gusto. Penso all’aglio, seminato prima dell’inverno nei rari spazi piani in mezzo alle colline dove regnano le vigne […] È tutto uno scambio di terre, di genti, di culture che concorre ad allestire una tavola offerta ad amici e compagni: alimenti poveri, diremmo oggi, ma ricchi di umanità e capaci di creare una vera e propria celebrazione […]

La bagna càuda è un piatto che non si può gustare davvero fuori dalla terra del Monferrato, fuori da quel mondo che l’ha pensata e creata. Può essere un tentativo di dare gioia e di stupire gli altri, ma non ritrova più la sua dimensione di celebrazione della terra, del lavoro e della sapienza delle generazioni che ci hanno preceduto.

Enzo Bianchi, Il pane di ieri, Einaudi 2008, 114 pp