Beppe Rovera, giornalista

“Il cardo della Pina”

Il primo ricordo sono i colori intensi dei peperoni e quell’odore un po’ stordente dell’aglio che cuoceva. Poi l’agitazione contenuta di mia madre, le acciughe distese e ben pulite. Mio padre che armeggiava intorno agli scaldini. Pina, bellissima e slanciata, l’unica figlia dei nostri vicini di casa, era arrivata per prima.

Portava un paio di pantaloni attillati color del mare e a un golfino forse arancio, i lunghi capelli neri raccolti da una bandana, le paperine. Erano i primissimi anni ‘60…“Angela, puzzeremo da morire. Domani nessuno ci parlerà”, scherzava la ragazza con mia madre.

Era tradizione nella mia famiglia mangiare la Bagna Cauda tutti insieme ai primi freddi di novembre. Era questo il senso di tutta la frenesia di quel giorno: stare bene insieme, confermare affetti e relazioni mangiando un cibo tanto semplice quanto potente, che ti lascia interdetto e poi devi decidere se amarlo o respingerlo per sempre.

L’attesa della cottura generava una sorta di apprensione: bisognava stare attenti che “non attacchi”, che l’aglio non bruciasse; due ore, forse più, di guarda e sposta. La tavola era lunga, il giorno prima mio padre aveva recuperato i cavalletti dal solaio con le plance in legno, la tovaglia bianca ricamata ornava e nascondeva, saremmo stati una ventina, forse più.

C’era aria di festa. Tutti si sorridevano. E si beveva: il vino che ci portavano da Diano d’Alba. Ricordo che nessuno si decideva a intingere per primo nello scaldino. Ma poi la Pina ha rotto il ghiaccio, ha sciolto i capelli, preso il cardo e l’ha calato nella Bagna Cauda. Applausi.